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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Editoriale Poesia & Rete (appuntamento n°4)

Continua, con questo quarto incontro, l'editoriale su Poesia & Rete, a cura di Alessandra Corbetta, un progetto trasversale alle pubblicazioni del blog che proverà a monitorare, attraverso interventi di diversa natura, lo stato delle interrelazioni tra il linguaggio poetico e le dinamiche del Web.


Chi volesse segnalarci studi o ricerche su questo argomento o desiderasse contribuire ad arricchire con competenza il dibattito, può farlo scrivendo a redazione@almapoesia.it, specificando in oggetto “Editoriale Poesia & Rete”; tutto il materiale pervenuto verrà sottoposto a lettura e quello ritenuto più interessante e valevole verrà proposto all’interno del progetto.


L'ospite di oggi è Bernardo Pacini con il quale, in questa intervista curata da Alessandra Corbetta e a partire dal suo Fly mode (Amos Edizioni 2020), abbiamo approfondito queste tematiche.


Il gaze, e cioè lo sguardo che esce dalla sua passività e diventa costruttore della realtà esperita, secondo la definizione fornita tra gli altri da Francesco Casetti, bene esplicita i mutati rapporti tra active e passive vision e la reciprocità, individuata da Giovanni Boccia Artieri, tra sguardo e visione. Nel tuo Fly mode (Amos Edizioni 2020) l’occhio di osservazione è collocato in un drone che è anche voce narrante della raccolta, nonché simbolo di quella complessità strutturale della società contemporanea dove il confine reale/artificiale è sempre più labile, se non addirittura superato; e, al di là del drone, è proprio il concetto di “visualità” a fare da fil rouge tra tutti i testi di questo tuo lavoro.

In che modo hai provato ad affrontare questi temi all’interno dell’opera e da dove è scaturita l’esigenza di posizionare la macchina da presa nel drone? Che prospettiva ci fornisce? Su quali spazi d’ombra getta luce?


Sin dai primi tentativi poetici, all’altezza del mio esordio Cos’è il rosso (2013), con più o meno consapevolezza ho focalizzato l’attenzione su sguardo e visione come elementi imprescindibili di una poetica: fondativi, perché no, di uno stile; espressivi di una sensibilità artistica; capaci di suggerire significati e parole adeguate, e di scandire il discorso dentro un ritmo dettato il più delle volte dall’immagine stessa. Quando mi son trovato dentro l’intuizione che poi sarebbe diventata il cuore di “Fly mode” (ovvero assumere il punto di vista di un drone), ho capito che - essendo politica e culturale prima che poetica - una tale prospettiva era diventata per me irrinunciabile ben prima della letteratura. Non tanto una postura per fare poesia quanto il desiderio di un’altra prospettiva sul mondo: una prospettiva assolutamente contemporanea, inedita e laterale, che è ciò che cerco nei poeti che leggo. Talmente laterale e obliqua da cogliere sempre un decentramento nel punto fisso di ogni avvenimento, in ogni manifestazione del contemporaneo. Tale prospettiva non è univoca: nel caso di Fly mode, ad esempio, è una prospettiva di osservazione dall’alto verso il basso, ma non in senso autoritario. Il poeta non guarda dall’alto giudicando, non è distante dall’azione. Al contrario vi è implicato in virtù della sua condizione di registratore cosciente, in cerca di una visuale differente sulle quelle stesse cose che vede accadere nella ferialità dei propri giorni apparentemente più desolanti o, purtroppo raramente, anche dei più intensi. È una prospettiva desiderante, in perpetua lotta con il fallimento dei propri tentativi. Ma per questo vive, non scade, non si esaurisce con la batteria litio-polimero.


Diversi studi sociolinguistici mostrano come il linguaggio della Rete molto attinga da quello della poesia, in termini fonetici e ritmici soprattutto ma anche per l’elusione delle classiche regole grammaticali, generando vari fenomeni tra i quali «la mentalità del minuscolo», secondo la definizione fornita da David Crystal. Allo stesso tempo la poesia, quando vuole parlare di Rete e di fenomeni a essa connessi, si avvale di un lessico tecnico, altamente specifico e inevitabilmente anglofono. In Fly mode tu riesci a integrare questa terminologia in un dire colloquiale, intervallato tra verso e prosa, forse a indicare provocatoriamente come la rivoluzione digitale abbia impattato con forza anche sul linguaggio comune da una parte e sulla lingua della poesia dall’altra.

Può essere valida questa interpretazione o l’impianto linguistico della tua raccolta parte da altri presupposti e si muove verso differenti direzioni? Ci spieghi da dove nasce, comunque, la necessità di questa compresenza lessicale e semantica?


Il tentativo di Fly mode è anche e soprattutto linguistico, perché non ho mai creduto nei compartimenti stagni della lingua poetica: in quanto immersa nella realtà e non avulsa, per me la poesia non deve avere un dizionario precostituito e limitato col quale circoscrivere un campo d’azione per forza di cose altrettanto limitato. Se accade questo nei libri altrui, tranne rari casi, io chiudo il libro e lo allontano da me. Assumendo poeticamente la prospettiva di un drone, non ho inteso depauperarlo della sua componente meccanica e tecnologica: sarebbe stata una forzatura ideologica, un trucchetto per aggiornare al 2020 quella che è una pratica metafisico-descrittiva tipica della poesia. No. Ho studiato il funzionamento dei droni sui manuali, ho spulciato i glossari, i video su youtube, ho chiesto agli esperti. In questo modo – pur senza prendere il sopravvento - il linguaggio tecnico è diventato un motore essenziale per la costruzione del libro, senza tappare altri serbatoi semantici e lessicali. Anzi! Sollevarsi da terra, vagare in aria osservando il mondo permette di catturare e mettere in crisi tra di loro un gran numero di occasioni e linguaggi corrispettivi, anche apparentemente antitetici a quello poetico tradizionale. Qualcuno ha accusato Fly mode di essere eccessivamente pluristilistico, di apparire come un collage di vari libri. In realtà per me questa critica è un obiettivo raggiunto: il volo del drone, tra le tante cose, è anche metafora dell’itinerario tra i tanti libri che ho letto e attraversato in questi anni, e sintesi del gran numero di incontri ed esperienze che ho fatto. Ciascuna ha avuto per me il suo linguaggio, che ho provato a restituire.


Il drone del tuo Fly mode è telecomandato e cioè guidato da qualcosa altro da sé stesso. Questo invita a riflettere su diversi temi, intrinseci ed estrinseci alla poesia; il primo è il rapporto tra autodirezione ed eterodirezione, dove quest’ultima è considerata una delle derive alle quali la rivoluzione digitale ha condotto; dall’altro il rapporto tra macchina e uomo e, conseguentemente, quello tra uomo e uomo e macchina e macchina, in riferimento anche all’assunto di Pedro Domingos secondo cui «l’algoritmo è in grado di programmare sé stesso, escludendo l’uomo»; infine la voce del poeta, come sempre in tensione tra fiato proprio e fiato altrui o, per riprendere il tema del visuale, tra sguardo interno e sguardo esterno.

Vuoi commentarci, partendo dalla tua opera, questi tre punti?


Per quanto la natura tecnologico/meccanica della voce narrante sia dichiarata inequivocabilmente sin dalla parte proemiale del libro, Fly mode non è un libro di monologhi, bensì dialettico. L’appendice del libro rappresenta infatti un ribaltamento totale: è il diario del dronista. La figura misteriosa, seconda eppure essenziale che fino alla fine è stata nell’ombra, prima dell’epilogo si apre alla confessione, racconta di sé con afflato quasi lirico, cerca di riacquistare una faticosa forma umana nel ricordo del nonno, della madre. Questo libro non vuole sancire il trionfo dell’algoritmo sull’uomo: al contrario, è il tentativo di tenere vivo il segnale umano dentro un presente tecnologico potenzialmente annichilente. È vero, il drone non è autodiretto: per ragioni a lui ignote, il pilota ha stabilito un destino non negoziabile. All’interno di questo itinerario, il drone può scegliere di essere un mero strumento o, come fa nel libro, può desiderare di lanciare il proprio sguardo oltre il limite di fabbricazione, sprofondando all’interno delle vicende che è costretto a filmare ogni giorno. Il dronista è Dio? Può darsi, agli occhi del drone sì, pur nella materialità. E agli occhi del dronista, cos’è il drone se non una piccola divinità? Gli è così facile librarsi sopra le cose del mondo, vederle con distacco emotivo e oltretutto con un’estetica niente male…


C’è, nei testi di Fly mode, un profondo senso di umanità che si spinge, seguendo una direttrice verticale, verso l’alto, toccando una dimensione se non religiosa certamente sacrale, e anche, orizzontalmente, verso ciò che le è prossimo e adiacente, verso quel quotidiano che è contingenza e, insieme, traguardo. Come a dire: nonostante la pervasività delle strumentazioni digitali e delle pratiche a esse associate, resta uno spazio in cui è possibile sottrarsi al tempo del cambiamento. Eppure questo spazio sembra assottigliarsi sempre di più, fino a che «ogni cosa, tale e quale / dolora in garanzia / nell’imballo originale.».

Ti chiedo: è davvero la fuga, che può concretizzarsi nel rifiuto di certe strumentazioni o nel nascondersi nei meandri del ricordo, l’unico tentativo di risposta alla società tecnologica? E la poesia, che ruolo gioca in tutto questo?


Credo di averti parzialmente risposto già nel passaggio precedente, citando la presenza di una dimensione religiosa di Fly mode. E, giustamente, tu citi alcuni versi dell’appendice che sembrano tratteggiare una risposta negativa alla tua domanda: in fondo a tutto questo spreco di umana pietà di fronte al monstrum tecnologico, tutto comunque dolora nell’imballo originale. Non è forse vero? La nostra condizione originale umana è dolorante persino nei momenti più lieti, di fronte a discrete o decisive illuminazioni. Io credo che non sia compito della poesia trovare una soluzione al problema della morte (non si parla d’altro in questo libro), né di indicare una via di fuga dai dolori del mondo. I ricordi del dronista sono continuamente disturbati dalla presenza invadente del drone: lo stesso modo di guardare al proprio passato che ha il dronista sembra quasi il volo di un drone dentro la propria memoria. Se la poesia fosse in grado di liberarci o consolarci, saremmo davvero fottuti. Un’arma così efficace in mano a gentaglia come i poeti, oltretutto ben poco concreti e spesso assai poco altruisti. La poesia per me è lo spazio d’azione del desiderio, e non vi è desiderio che non sia fomentato dalla possibilità di ricominciare dopo ogni singola caduta. Anche se la scocca riporta qualche danno, resistiamo molto bene agli urti.


Bernardo Pacini (1987) vive a Firenze. Ha pubblicato alcuni libri di poesia: Cos'è il rosso (Edizioni della Meridiana 2013), Perfavore rimanete nell’ombra (Origini 2015), La drammatica evoluzione (Oèdipus 2016) e Fly mode (Amos 2020). L'ultima antologia in cui è stato inserito è Poeti italiani nati negli anni '80 e '90 (Interno Poesia 2019). Ha fondato la rivista lay0ut magazine, di cui è caporedattore. Traduce autori di poesia americana, tra cui Russell Edson, James Tate e Bill Knott.

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