Editoriale Poesia & Rete (appuntamento n°3)
Continua, con questo terzo incontro, l'editoriale su Poesia & Rete, a cura di Alessandra Corbetta, un progetto trasversale alle pubblicazioni del blog che proverà a monitorare, attraverso interventi di diversa natura, lo stato delle interrelazioni tra il linguaggio poetico e le dinamiche del Web.
Chi volesse segnalarci studi o ricerche su questo argomento o desiderasse contribuire ad arricchire con competenza il dibattito, può farlo scrivendo a redazione@almapoesia.it, specificando in oggetto “Editoriale Poesia & Rete”; tutto il materiale pervenuto verrà sottoposto a lettura e quello ritenuto più interessante e valevole verrà proposto all’interno del progetto.
L'ospite di oggi è Vera Gheno, che in questa intervista curata da Alessia Bronico e Alessandra Corbetta - e frutto della trascrizione del dialogo avvenuto tra Bronico e Gheno - ci accompagna nella riscoperta della parola, in tutte le sue accezioni, al tempo della Rete.
Hai di recente registrato un TEDX intitolato Brevissima storia dello schwa. Un simbolo dell’’Alfabeto Fonetico Internazionale entrato nella sperimentazione linguistica da qualche anno e sotto attacco dai grammar nazi che sostengono l’inesistenza di tale suono nell’italiano. La lingua è in movimento, abbiamo già detto, e i parlanti tendono ad essere conservatori.
Che importanza riveste la sperimentazione dello schwa, ci muoviamo verso un concetto di italiano inclusivo? (AB)
È senz’altro vero che la lingua è in movimento e che alla fine la lingua si adatta alle esigenze dei suoi parlanti e anche delle minoranze. Ciò nonostante è anche vero che i parlanti tendono ad essere conservatori, conservativi nei confronti della loro lingua che sentono loro come atto identitario. Quindi io non chiamerei grammar nazi coloro che non sostengono l’esistenza di tale suono nell’italiano, è vero, nell’inventario dell’italiano standard non c’è questo suono ma questo non ci impedisce di pronunciare termini stranieri che all’inizio hanno proprio lo schwa. Io continuo a vederla come una sperimentazione e le sperimentazioni sicuramente non fanno male e non vengono imposte a nessuno, e mi dispiace che ci sia così tanto astio nei confronti di queste sperimentazioni. Non è detto che sia lo schwa la soluzione inclusiva, perché in realtà non lo è. Include, magari, le persone non binary, genderqueer, genderfluid ma esclude chi ha delle difficoltà di lettura come le persone dislessiche, in alcuni casi anche alcuni tipi di neuro diversità, quindi non è detto. Anzi, io non penso che lo schwa sia la soluzione definitiva, penso che sia il segnale di qualcosa, un sintomo di un’esigenza alla quale per ora non è stata data una risposta migliore.
«Un uomo apre una busta contenente un referto medico, legge che il risultato è “negativo” ma non sa se tirare un sospiro di sollievo o se preoccuparsi», questo è l’incipit di Potere alle parole. Perché usarle meglio. (Einaudi 2019), in cui seguono altri esempi di mancata comprensione di un messaggio.
Da cosa scaturisce questa mancata comprensione? Da una scarsa competenza linguistica? Capita, forse, perché la maggior parte dimentica che la lingua è uno strumento vivo e in continua evoluzione, e sopravvaluta le proprie abilità in questo campo nell’illusione che aver appreso la lettura e la scrittura siano sufficienti per maneggiare la padronanza linguistica a lungo termine senza continue integrazioni e studio? (AB)
Credo che la mancata comprensione di particolari forme di comunicazione, come potrebbe essere un referto medico, un bugiardino, una multa e così via nasca dal fatto che questo, al momento, non si impara tanto a scuola. A scuola si tende ancora a imparare un italiano tradizionale, l’italiano tradizionale che di fatto non è ancora cambiato dai tempi del Bembo, cioè dal ‘500. E si continuano a considerare le questioni linguistiche nella modalità bianco o nero, giusto o sbagliato, si può non si può. Invece l’uso linguistico è un continuum, è uno spettro di usi e contiene al suo interno uno spettro di usi a seconda della situazione in cui ci troviamo, degli interlocutori con cui parliamo o scriviamo e delle intenzioni comunicative che abbiamo. Quindi è una cosa che manca a scuola. Io penso che la scuola italiana sia ancora un po’ tarata sul modello di insegnare a leggere, scrivere e fare di conto. È andato benissimo per lungo tempo ma adesso nel complessificarsi della società forse queste tre competenze non bastano più. Ci vuole leggere, scrivere, fare di conto e vivere l’ipercomplessità in cui viviamo e che comprende anche avere una maggiore mobilità linguistica. E poi è senz’altro vero che molte persone tendono a credere che ciò che hanno imparato a scuola in senso linguistico vale universalmente per sempre, invece c’è bisogno di continuo adattamento.
Nel libro scrivi che è il linguaggio a renderci umani, nessun’altra specie si caratterizza per questo. Scrivi anche che l’essere umano è onomaturgo, cioè un creatore di nomi. La lingua, quindi, è un atto di identità e ha potere. È l’uomo a conferire questo potere alle parole, perciò possiamo dire che non esistono parole belle o brutte a priori ma belle o brutte a seconda dei contesti. Dobbiamo essere in grado di riappropriarci delle parole giuste, in che modo? (AB)
La miglior motivazione per cercare di riappropriarsi delle parole giuste, di imparare a usarle meglio, è che questo porta a un maggior benessere esistenziale. Fondamentalmente chi parla meglio, chi scrive meglio, vive anche meglio. È un buon consiglio, diciamo qualcosa che può far venir voglia di migliorare la propria competenza linguistica. Le parole di per sé non sono né belle né brutte e secondo me un buon modo per iniziare a usarle meglio è quello di pensarle meglio. Non fermarsi alle scorciatoie linguistiche che sono stereotipi, le parole che vanno bene in ogni contesto come fatto, cosa, roba e così via ma fermarsi un attimo a riflettere e andare alla ricerca della parola più precisa, più icastica come direbbe Italo Calvino.
Veniamo alla questione dei femminili professionali dei nomi. Nel libro sono riportati alcuni aneddoti, tra cui quello legato a Laura Boldrini e a un alterco verbale con un deputato che la appellava «signor presidente». Quando gestivi il profilo Twitter dell’Accademia della Crusca ti definivi «gestrice dell’account».
Ti va di aiutarci nella comprensione dell’argomento che suscita un acceso dibattito? Cosa preoccupa in particolare i parlanti riguardo ai femminili professionali? (AB)
L’argomento dei nomina agentis suscita un grande dibattito perché di nuovo si va a toccare un’abitudine, l’abitudine di chiamare anche le donne che lavorano in contesti o che sono in posizioni professionali prevalentemente maschili al maschile, quindi l’avvocato, l’assessore, il ministro anche se sono donne. In realtà la grammatica ci dà già una risposta, cioè i nomina agentis al femminile sono perfettamente regolari, e l’unica differenza tra ministra e maestra o fra ingeniera e infermiera è che ai secondi siamo abituati e ai primi no. Siamo abituati a maestra e infermiera semplicemente perché ci sono da più tempo, sono più comuni mentre ministra e ingeniera no, anche qui è soprattutto una questione di abitudine. Poi, su una istanza che linguisticamente non presenta alcun problema si stratificano questioni sociali, culturali e anche politiche per cui, disgraziatamente, definirsi al femminile è diventato di sinistra e definirsi al maschile è diventato di destra. Però bisognerebbe ripulire questa questione da tutti i cascami politici, sociali e culturali e rendersi conto che dal punto di vista linguistico non ci sono problemi di sorta.
Nel tuo TED a Montebelluna hai dedicato uno speech al potere della parola e alla sua centralità nei processi comunicativi, mettendone in risalto le sue funzioni tipiche, tra le quali la capacità della parola di essere un atto di identità, di contribuire alla definizione delle tribù, di descrivere la realtà e di essere azione.
Vorresti contestualizzarci come queste declinazioni si esplicano specificamente per la parola che entra in Rete? Quali punti di rottura e quali di continuità in una dimensione che, per riprendere la celebre espressione di Luciano Floridi, è ormai dell’«onlife»? (AC)
Credo che i social media onlife hanno semplicemente aperto una nuova dimensione della comunicazione, una dimensione alla quale non siamo mai stati educati, cioè quella pubblica, quindi la continuità è che la parola continua ad avere gli stessi ruoli: atto identitario individuale, atto identitario collettivo e nominazione del mondo, concettualizzazione del mondo tramite le parole. Quello che cambia nell’online è che noi esseri umani tarati nella comunicazione de visu, una comunicazione in cui il corpo e tutto ciò che è il corpo fa la sua parte, ci troviamo un po’ sperduti in un contesto digitale in cui, invece, siamo solo le nostre parole. E ciò rende le parole più fraintendibili, più pericolose, perché non sono controllabili e rischiano di diventare immortali. Il maggiore elemento di discontinuità è il passaggio da una comunicazione in circoli ristretti a una comunicazione potenzialmente globale, che infatti dobbiamo imparare a gestire.
In Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network, (Cesati 2017) metti in evidenza alcuni elementi di comunanza tra la scrittura adoperata in Rete e quella propria del linguaggio poetico, in termini, ad esempio, di uso fuori norma della punteggiatura, di adozione della scriptio continua e della «mentalità del minuscolo» (Crystal) o il ricorso massivo alle onomatopeiche, che perfettamente si inseriscono in quel processo di ricreazione delle dinamiche attuali all’interno dell’ambiente virtuale.
Quali considerazioni possono scaturire, secondo te, dalla vicinanza tra due linguaggi nell’immaginario comune così distanti? Potrebbero svilupparsi studi specifici che indaghino approfonditamente questo tipo di ibridazione? (AC)
Credo che ci siano dei contesti linguistici liminali rispetto alla nostra quotidianità nei quali è normale che ci sia libertà di sperimentazione e questo accomuna certi ambiti della scrittura della rete, in rete e anche l’ambito poetico, della poesia o più in generale il linguaggio artistico. Immagino e so che ci sono delle forme digitali artistiche anche, quindi una fusione di questi linguaggi differenti esiste già. La cosa interessante è che mentre possiamo guardare con favore alle sperimentazioni in ambito poetico, spesso storciamo il naso davanti a quello che viene sperimentato online. Però, è una questione di approccio a due ambiti di sperimentazioni differenti e che in realtà hanno tutte e due la stessa dignità di esistere, non ci dovrebbe essere una particolare discriminazione.
L’importanza della parola in Rete risulta quanto mai chiara in Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello (Longanesi 2018), il volume da te scritto insieme a Bruno Mastroianni per invitare a riflettere su quanto i comportamenti nel grande regno del Web passino, in massima parte, dall’uso che facciamo al loro interno del nostro linguaggio. Affermare ciò significa sottrarre gli utenti, che sono prima di tutto esseri umani, da processi eterodirettivi, ricollocando in loro la responsabilità di quello che può accadere o non accadere e riportando sulla parola, in un’epoca oculocentrica come la nostra, la giusta attenzione.
Vuoi sintetizzarci i principali passaggi attraverso cui possiamo cogliere la necessità di tornare o iniziare a renderci conto del potere delle parole anche in Rete e di come, con le stesse, in base all’uso che ne facciamo, si possano innalzare muri o, al contrario, costruire ponti? (AC)
Secondo me il modo migliore per capire quanto ancora le parole siano inevitabili, ineluttabili, tanto per fare riferimento a quello che dice Thanos nella saga degli Avangers, è pensare cosa succede quando un’immagine crea una crisi di comunicazione. Quando un’immagine viene decodificata male e provoca un fraintendimento, e quindi provoca una shitstorm, non si risponde con un’altra immagine, si risponde con le parole. Perché l’immagine è massimamente di libera interpretazione, quindi c’è una grande implicitezza nell’immagine, tant’è vero che ognuno di noi può interpretare anche lo stesso quadro, la stessa foto in maniera completamente differente. Questa la rende molto potente ma anche molto imprecisa. Quando abbiamo bisogno di precisione si torna alle parole che non sono al momento superate o superabili dall’immagine. Proprio per questa loro potenza, per la loro precisione, le parole possono creare o distruggere ponti. Come si fa a evitare di offendere o denigrare o trattare male il prossimo? Il primo passo è quello di mettersi in ascolto della diversità, noi siamo una società ancora molto normo centrica in cui la diversità diventa un problema. Forse dobbiamo superare innanzitutto questo punto di vista e non pensare che possiamo capire come stanno gli altri, “so come ti senti”, no non lo sai. Bisogna lasciare che io ti spieghi come mi sento e di conseguenza mi devi stare ad ascoltare. Il primo modo per imparare a costruire ponti con le parole è quello di mettersi in ascolto.
Una delle principali problematiche con le quali la società contemporanea si deve misurare è sicuramente la tensione tra assenza e abuso di parole: un proliferare di termini, come ad esempio quello di instapoet, che rimandano a significati non sempre chiari, associabili a orizzonti di senso che occorrerebbe ridefinire. Chi sono gli instapoets? Il vocabolario Treccani ne dà questa definizione: «Chi pubblica i propri componimenti poetici, di solito brevi e accompagnati da immagini, nei siti di relazione sociale in Rete, in particolare Instagram»; ora: bisognerebbe capire cosa si debba intendere con “componimenti poetici” e se la brevità e l’associazione a immagini siano elementi definitori del testo poetico. In secondo luogo sarebbe utile discernere poesie precedentemente scritte (o parti di esse) e sulle quali la definizione di “poesia” è riconosciuta da gruppi ampi di soggetti, dalla critica e sulla base di uno spazio cronologico esteso, da un testo che strutturalmente potrebbe rievocare la forma poetica, ma sul quale il termine “poesia” non gode della stessa condivisione di cui sopra e che nasce come caption, ovvero con l’intento di colpire, attirare, emozionare e cioè con presupposti differenti da quelli che guidano chi scrive poesia. Bisognerebbe cioè capire oggi quanto sia estensibile l’iperonimo “poesia” e se non possa, invece, essere utile avvalersi di iponimi che possano, in maniera più precisa, chiamare fenomeni che presentano caratteristiche peculiari e solo in parte sovrapponibili al concetto di poesia che, in altra opzione, potrebbe essere ridefinito, come era avvenuto con “amicizia” in riferimento a Facebook.
Ritieni che possa esserci un intervento della linguistica e della sociolinguistica in questo senso? Quanto un uso più corretto della terminologia potrebbe aiutare a dirimere questioni che portano alla deriva fenomeni erroneamente intesi? (AC)
Credo che solo persone direttamente interessate da questo tipo di questioni, come instapoets, possa trovare una soluzione linguistica anche alla nomenclatura, per nominare questo tipo di componimenti. Non sarebbe giusto che la linguistica o la sociolinguistica se ne occupassero, perché evidentemente è in atto un processo di autodefinizione artistica e poetica anche e quindi saranno i diretti interessati a scegliere un altro modo per chiamarsi.
Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice dall’ungherese e divulgatrice, ha collaborato per vent’anni con l’Accademia della Crusca e per quattro anni con la casa editrice Zanichelli. Ha insegnato come docente a contratto all’Università di Firenze per 18 anni; da settembre 2021 sarà ricercatrice di tipo a presso la stessa istituzione. La sua prima monografia è del 2016: Guida pratica all'italiano scritto (senza diventare grammarnazi); del 2017 è Social-linguistica. Italiano e italiani dei social network (entrambi per Franco Cesati Editore). Nel 2018 è stata coautrice di Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello (Longanesi). Nel 2019 ha dato alle stampe Potere alle parole. Perché usarle meglio (Einaudi), La tesi di laurea. Ricerca, scrittura e revisione per chiudere in bellezza (Zanichelli), Prima l'italiano. Come scrivere bene, parlare meglio e non fare brutte figure (Newton Compton), Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole (EffeQu); è del 28 aprile 2020 l'ebook per Longanesi Parole contro la paura. Istantanee dall’isolamento. Nel 2021 pubblica Trovare le parole. Abbecedario per una comunicazione consapevole (con Federico Faloppa, Edizioni Gruppo Abele); è in uscita a settembre Le ragioni del dubbio (Einaudi). Dal 14 settembre 2020 all'11 giugno 2021 ha condotto, con Carlo Cianetti, il programma di Radio1Rai Linguacce, in onda dal lunedì al venerdì dalle 15:30 alle 16:00.
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