«Dove siamo senza corpo accucciati»: recensione a “Tutti gli occhi che ho aperto” di F. Mancinelli
Aggiornamento: 17 dic 2020
Se mi si chiedesse di scegliere un sostantivo che in qualche modo sintetizzi ed evochi l’ultima pubblicazione di Franca Mancinelli, Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos 2020), opterei senz’altro per calibratura, perché in quell’idea di riduzione al calibro voluto, di controllo e di misurazione sta la forza motrice dell’opera, nella quale è evidente, come sottolinea anche Fabio Pusterla nella quarta di copertina, il labor limae e l’attività di scarnificazione che Mancinelli ha condotto su ogni componimento, ogni verso, ogni parola. Eppure, la ricerca di un’espressione formale così brachilogica, in grado di mantenere la sua essenzialità anche laddove il verso si allunga fino alla prosa, riesce comunque a coniugarsi con la creazione di immagini vivide, capaci di travalicare il limite fisico della pagina: «in ruminare paziente / ti sta divorando la vita, sazio / come una carestia.», oppure «dipingo a occhi chiusi la finestra / come una tela vuota / tastando i petali appassiti / per prendere colore».
Occorre però precisare che questa potenza iconica non dipende tanto dall’immaginario al quale Mancinelli attinge e al quale il lettore viene rimandato, quanto all’eliminazione capillare del superfluo e alla cura scrupolosa di tutto ciò che costituisce la raccolta: dagli spazi bianchi alla disposizione dei versi sulla pagina, dalla coerenza delle sfere semantiche di riferimento fino alle sezioni delle quali l’opera si compone (Jungle; Alberi maestri; Tutti gli occhi che ho aperto; Luminescenza; Specchio ricurvo; Tre sillabe di silenzio; Frammenti per una dedica; Diario di passo). In altre parole, la consistenza di Tutti gli occhi che ho aperto non risiede specificamente nelle immagini-origine, principalmente legate al corpo, alla terra e alla luce, verso le quali proviamo una sorte di abitudine, anche per via delle tendenze poetiche più recenti che rimaneggiano in continuazione queste micro sfere di significanza, ma piuttosto nella sobrietà formale con le quali Mancinelli le propone e nella compattezza finale in cui vengono inglobate: «si è fatta di grafite la pupilla / fissa la nebulosa / di punti che siamo.»; «dai talloni alle tempie / si allunga dentro di me / come l’ombra di un dio.»; «ramifico secondo la luce / alberi maestri / a spalancarmi il petto / con la forza che viene da un seme.»; «Non c’è vaso / né giardino. Soltanto / la terra. La luce. La pioggia.».
Sebbene, infatti, la poesia di questa raccolta proceda per frammenti fortemente ricercati, come sia le scelte di disposizione dei componimenti nella pagina sia quelle terminologiche dimostrano, la distanza tra l’uno e l’altro tende poi a scomparire, ad annullarsi, per quella perizia scultrice di Mancinelli, abile a tenere saldissimo il tutto e le parti che lo compongono: «stringe la stanza come una mano / due pezzi di pane a sbriciolarsi»; «la terra, una pagina scura: / ciò che cade si scrive / frantuma e sgrana / nel buio raggiunge / il senso, si perde.».
Tale struttura riproduce e si radica completamente all’interno delle costruzioni identitarie odierne, nelle quali lo spessore individuale si costruisce a partire dalla sovrapposizione di elementi differenti e non da un unicum in crescita: la poesia di Mancinelli diventa, in questo senso, esemplare e rappresentativa di qualcosa che oltrepassa il verso e, per questo, poesia nell’accezione più piena del termine.
Tutti gli occhi che ho aperto, quindi, tenendo in controluce l’elemento biografico per renderlo fin da subito trampolino del dire etico, mette in primo piano l’operazione neurochirurgica (Pusterla) che Mancinelli compie sulla propria scrittura, nella quale la reiterazione di immagini e di lessemi (il ricorso alla parola “corpo” o alle parti che lo compongono è continuo) risulta funzionale all’identificazione di un deciso moto oppositivo, posto in essere proprio contro quella disgregazione continuamente richiamata. Senza nessuna alzata di voce né cedimento emotivo, perseguendo quel suo comunicare pudico e discreto ma deciso, Mancinelli rende, con questa raccolta, il suo stile sempre più nominale e riconoscibile, consolidando un percorso già netto nella pubblicazione precedente, Libretto di transito (Amos Edizioni 2018) della quale conserva anche la centralità conferita al regime scopico e dunque allo sguardo come entità portatrice di un'active vision: «ho visto gli occhi degli alberi»; «Chiudo gli occhi, e attraverso l’immagine.».
Procedendo per incastri esatti di idilli rovesciati, così mi viene da chiamare questi nuclei costitutivi dell’opera, Mancinelli tratteggia una via mediana personalissima, posta a ponte tra apollineo e dionisiaco, dove quest’ultimo rimane investito dalla luce della forma e il primo adombrato dal dolore della rottura e cioè da quella separazione primigenia con la quale si hanno ancora dei conti in sospeso.
Franca Mancinelli è autrice dei libri di poesia Mala kruna (Manni, 2007), Pasta madre (con una nota di Milo De Angelis, Nino Aragno, 2013), Libretto di transito (Amos Edizioni, 2018), e Tutti gli occhi che ho aperto, Marcos y Marcos 2020. Una silloge di suoi testi è compresa in Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012) e con introduzione di Antonella Anedda, nel Tredicesimoquaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2017). Fa parte della giuria dei premi “Pordenonelegge Poesia. I poeti di vent’anni”, “Esordi”, e “Umberto Saba Poesia”. Ha partecipato ad alcuni progetti internazionali, tra cui Refest – Images and Words on Refugee Routes (2018) da cui è nato Taccuino croato, raccolto in Come tradurre la neve (AnimaMundi Edizioni, 2019). Traduzioni di suoi testi sono apparse su riviste e antologie straniere. Con traduzione inglese di John Taylor sono usciti in Usa per The Bitter Oleander Press, The Little Book of Passage -traduzione di Libretto di transito, e At an Hour’s Sleep from Here. Poems 2007-2019, traduzione dei suoi primi due libri con alcuni inediti.
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