«Come esseri dimenticati»: recensione a "Complicazioni di altra natura" di Gianni Marcantoni
Una riflessione intelligente su questo libro di Gianni Marcantoni, Complicazioni di altra natura, uscito per Puntoacapo nel 2020, e forse sul senso intero della scrittura del poeta marchigiano, non può secondo me prescindere dalla lettura di questi versi: «[…] farci scordare che eravamo nati vivi […] / che una volta fummo ricoverati d’urgenza / nella camera in fondo al corridoio / e che poi vi respirammo dentro / ogni giorno, come esseri dimenticati / che non fecero più ritorno». Una lettura cruciale che non solo svela un qualche retroterra vagamente leopardiano – almeno nella tragica agnizione del Canto notturno secondo cui «è funesto a chi nasce il dì natale» – ma che illumina quel pessimismo quasi ontologico, che è fondante nel gesto poetico di Marcantoni. Sì perché qui è chiara, e tangibile, quella nostalgia del tutto e dell’infinito che ci appartiene in quanto esseri viventi, costretti a vivere una vita che non abbiamo scelto ( «a viaggiare una vita da scemi», per parafrasare un verso del De Andrè di Non al denaro, né all’amore, né al cielo), gettati su una terra che si fa sempre più inospitale, quasi fossimo carne votata al macello – «noi restiamo pezzi appesi / nelle macellerie», scriverà altrove. Questa consapevolezza si traduce in Marcantoni nella necessità di guardare quell’abisso, di affacciarsi sull’orlo del precipizio, nonostante, come chiarisce già in apertura del libro, quel pensiero sia «asfissiante», quasi fossimo chiamati in quanto esponenti del genere umano, prima ancora che poeti, a tentare di raccontare quell’orrido, a esplorare l’oscurità abbacinante di quel vuoto, a dirla e a chiamarla per nome, pur sapendo che qualsiasi appiglio potrebbe rivelarsi labile e qualsiasi sentiero impercorribile.
La prima sensazione che ho sempre ricavato dalla lettura della sua poesia, che certo mostra questa fatica di raccontare e di descrivere il fondo, è quella di un senso di claustrofobia, quasi il lettore rimanesse imprigionato tra quelle mura, incastrato dentro l’architettura di quei versi con cui Marcantoni tenta una decifrazione del mondo. Una claustrofobia acuita dal sentirsi reclusi in quella “stanza”, evocata in diverse occasioni, da cui pare muoversi la penna di Marcantoni; la stessa, in fondo al corridoio, in cui siamo venuti al mondo e dalla quale pare non siamo mai usciti veramente, una stanza che forse è dentro di noi, attraverso cui guardiamo il farsi delle cose, l’alternarsi di luce e buio, il distendersi e il morire del giorno. E appunto in quella “stanza”, che è al contempo una prigione e un luogo privilegiato attraverso cui guardare fuori di noi, siamo disperatamente soli. La sua è una poesia fatta di ombre, di fantasmi, una poesia in cui lo scavo e il racconto di quello scavo convivono, una poesia in cui pare tutto tragicamente ripiegato verso l’interiorità del poeta che, però, si fa specchio di tutto quel mondo che respira oltre, di tutto il dolore, l’ansia, l’insoddisfazione del genere umano, che racconta attraverso la sua lente le tante, troppe stragi, che si consumano fuori, continuamente, il sangue sparso inutilmente, rappreso dovunque a un palmo del nostro viso. E lo fa con un linguaggio che scatta all’improvviso, si fa vivo, pulsante, carnale, che ci parla di ossa rotte, di ferite, di tagli, di lacerazioni, lo fa, descrivendoci paesaggi derelitti, straziati, cucendo attraverso le parole in una sola immagine il reale e la nostra percezione di quel reale, gravata dalla sofferenza del vivere.
In questo mondo, fatto di tante «complicazioni», in cui ci muoviamo in una sorta di percorso ad ostacoli, in questo mondo in cui la Natura stessa pare essere la prima “complicazione” che ci è capitata in sorte, responsabile della nostra infelicità, la figura di un qualche dio resta in alto, impassibile, trincerato nei suoi inter mundia, «a guardare incurante questo globo / pestato a sangue». E all’uomo forse non resta che il gesto del povero preticello deriso, di caproniana memoria, che pregava non «perché Dio esiste», ma «affinché Dio esista».
Gianni Marcantoni, classe 1975, nasce nelle Marche a S. Benedetto del Tronto, e vive a Cupra Marittima. È laureato in Giurisprudenza ed ha un impiego. Scrive versi dal 1991 ma inizia a pubblicare nel 2008 su alcuni siti internet dedicati alla poesia. Delle sue liriche vengono selezionate in alcune antologie poetiche (edite da Aletti, Pagine, Accademia dei Bronzi). Nel 2017 viene inserito nella Enciclopedia dei Poeti Contemporanei Italiani (Aletti). Tra il 2014-2019 riceve vari premi e menzioni nella sezione volume edito in concorsi letterari nazionali ed internazionali. Le sue raccolte poetiche sono: Al tempo della poesia (2011, Aletti), La parete viva(2011, Aletti), In dirittura (2013, Vertigo), Poesie di un giorno nullo (2015, Vertigo), Orario di visita (2016, Schena), Ammessi al paesaggio (2019, Calibano), Complicazioni di altra natura (2020, puntoacapo).
Comments