«Chi è che vede quello che vedo io?». Nota di lettura a Why do you call me bad? di Federica Gullotta
C’è un liquido verde acido che cola lungo la finestra, ma la manopola della porta gira ancora e si apre su luoghi dalle coordinate note. Si esce. Si va. Fino alla superficie del lago su cui tante volte si è intravisto un riflesso di orizzonte: oggi è uno specchio piatto saturo di liquami maleodoranti, viscido e irriconoscibile. Una figura si piega sulle ginocchia, si sporge dalla sponda fangosa, smuove la massa di rottami galleggianti con un ramo secco: che volto scorge in mezzo ai colori del cielo rifratti dall’acqua? Federica Gullotta in Why do you call me bad? (2023, Delta3 Edizioni) si avvicina con passo felpato alle origini – della specie, della cultura occidentale, del modo di vivere che oggi contraddistingue le esistenze, di sé stessa persino – per capire dove abbiamo sbagliato. Perché la percezione, fortemente autobiografica, ma non per questo meno condivisibile, che emerge dai suoi versi è che da qualche parte senza accorgercene abbiamo sbagliato eccome: «i rottami qui vicino / in uno spazio vuoto / abbiamo vomitato all’aria aperta / sotto un albero, allegramente». Ma, per capire cosa abbiamo sbagliato e dove, occorre sporgersi dalla sponda verso la superficie intasata del lago un tempo limpido fino a che la sensazione di cadere non diventi come quella di una corda tesa dall’ombelico fino al fondale, che ci avvicina all’acqua al rallentatore, in una tensione tra l’istinto di sopravvivenza e il desiderio di bagnarsi le labbra nel liquido più puro e fresco, celato da qualche parte in profondità: «ecco che ci riabilitiamo / la ragione è un’acqua mostruosa / come una lotta chiara e profonda / è così nitida questa fine».
Il movimento di avvicinamento che Gullotta intraprende avviene alla fine di un percorso, dopo che la poetessa si è accorta, con solenne limpidezza di sguardo, che il nostro modo di vivere la vita è ora marcio. Per accorgersene occorre togliere tutto ciò che ingombra la superficie del lago e osservare da vicino il riflesso della nostra esistenza, dove, pur in un costante «marcire», è dato trovare il «vero»: «ma questa / non è notte / e non pensare che il giorno / dopo / sarà un giorno / l’aria di carta, i tuoi genitori / la plastica dell’animale, / l’adulto che ti osserva, / la macchia dove stava / la pianta / no morte / no questi sentimenti / allora marcire nel vero».
Un mondo marcio. Fallito. Antiquato. Com’è successo – si chiede Gullotta – che la vita sia diventata, da autentica che era, una lunga campagna di guerra, costellata di rituali e giorni di festa, momenti standardizzati di cui abbiamo perso il senso e che ripetiamo come gesti imparati a memoria di un’antica danza? («la malattia dei vivi / manca alla morte / solo il rassegnato vive o lo sfigato / o quello programmato male / per gli altri invece / è una lunga campagna come gli / antichi, / coi giorni di festa, le sacre pietre»).
In questo movimento di ricerca, che è il semplice accucciarsi sulla sponda per cercare una superficie limpida e, solo a seguire, un volto, Gullotta porta a galla due verità che il verso riflette in maniera incontrovertibile negli occhi del lettore. Innanzitutto la consapevolezza che, per come funziona oggi il mondo, solo a chi è capace di adeguarsi alle convenzioni è possibile sopravvivere; e poi, che chi si sente respinto dallo schema e al di fuori di esso trova la vita, egli si avvicina pericolosamente a diventare preda: «ascolta come ti devi vestire, / al pari degli animali / assenti i boschi, assenti le città / mettiti dove non sei rappresentato»; oppure, scrive ancora Gullotta: «quando ti preparano di’ alcune frasi / per sembrare parte del gruppo / accetta che la tua immagine non / sia considerata veritiera / perché in effetti non lo è»; e infine: «faranno tentativi molto maldestri / molto stupidi / ti accerchieranno per mille motivi / non sapendo che non ci sei».
La caccia, l’accerchiamento, la dinamica preda-predatore, la costrizione all’omologazione e alla perdita della versione autentica del sé sono temi più che ricorrenti nella poesia di Gullotta, ma anzi formanti, nella misura in cui ogni costruzione in versi parte da una sensazione di perdita e dal conseguente desiderio di ricercare di ciò che c’è, ciò che è. Il ritorno all’origine, un manifesto anti-specismo che si concretizza in riscoperta di una radice animalesca e nella ricerca del «vero», è una rivoluzione. Un impulso profondissimo e soddisfatto dalla poetessa che dichiara in versi quasi avidi, energici, potentissimi, di voler «vedere i boschi / magnifici e incontinenti / vedere animali selvatici / ad esempio i lupi / vedere le pecore e i cavalli / ci piacerebbe andare nella / tomba dell’estate».
Solo in quel cerchio di acqua trasparente che riflette i raggi del sole cessa la spinta logorante a essere qualcuno o qualcosa che non sia, semplicemente, il sé. Allontanandosi dagli illusori baluginii dei fluidi fosforescenti che distorcono l’immagine, la poesia di Gullotta rinasce dall’acqua pura, con i suoi movimenti turbinosi e repentini, per riavvicinarsi alla solidità terra. Sempre in profondità però, come quando cercava accucciata sulla sponda del lago, ora Gullotta segue i percorsi tortuosi delle radici e la rivoluzione che propagano: «sono almeno cinquanta, cento, / duecento anni / che non viene ripulito questo / cervello» – scrive – accostando l’immagine delle sinapsi a questi nodi pulsanti di linfa, che si muovono nascosti per generare la vita della pianta e che per esistere hanno bisogno di eliminare, ora per ora, le scorie. Un movimento da cui imparare qualcosa, altrimenti l’allontanamento dall’origine sarà irrecuperabile: «Vivremo / e vivremo cadendo, / da noi / o dall’origine / o da quel legittimo punto, / o dalla fine / questa è la nostra lunga / assenza / è quello che vedremo sparire / di noi».
Come sottolineato nella prefazione di Federico Italiano, Gullotta in questi versi costruisce una «autobiologia», in un «confronto serrato ma mai risolutivo con la dimensione zoologica, animale, selvaggia, tanto dell’io lirico quanto della poesia in senso lato». Anche perché la sua poesia non tentenna, si muove con passo e voce sicura e «punta dritta al cuore del mondo e delle cose […] va verso il mondo, chiede e vuole il mondo, lo penetra, lo studia e lo canta, con toni a volte liquidi, onirici, a volte roboanti come lamiere sconquassate da una tempesta». La ricerca, contrapposta in maniera ossimorica al progresso ovunque sbandierato, è invece un ritorno alla potenza disarmante delle colline, dove può essere ritrovato, come un tesoro dimenticato, lo stupore: «è piombo vecchio quello / che piaga le colline / che a stento sopravvivono / e sotto potrebbe esserci / qualsiasi cosa / che invecchia e non perisce».
La concretezza della ricerca si dà in modo più spontaneo al lettore nei tre poemi in prosa dove l’emarginazione è personale, il movimento di omologazione rifiutato per davvero, in stanze appartate, dove i luoghi si popolano di fantasmi e la rivoluzione è dichiarata: «“Non voglio essere una proiezione”. Era inizio dicembre».
Si arriva così alla fine, aperta all’interpretazione come ogni esercizio sincero di scrittura dovrebbe essere, per chi scrive però risposta a una domanda posta qualche pagina prima con sfrontatezza da profeta, sacerdotessa: «Chi vede le cose vive che stanno / con quelle senza vita? / Io vedo chiara la mia causa - / non è qui». E poi ancora: «Chi è che vede quello che vedo io?». Lily, un nome chiaro e finalmente una coordinata tangibile del mondo della poetessa, mette un punto alle vertiginose costruzioni di Gullotta. È Lily che può farla scendere dalla giostra impazzita del mondo (Lily, get me off from this si intitola l’ultimo componimento) eppure Gullotta anche qui non ha paura di far dire alla poesia il vero e fissare ancora una volta il volto riflesso nello specchio d’acqua ottenuto tra rottami e liquidi marcescenti: «Esisto io non Lily / Solo io esisto».
Federica Gullotta nasce a Faenza (Ra), frequenta il Liceo Classico e si laurea in Sociologia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna nel 2016. Pubblica il suo libro d’esordio, “La bestia viziata”, nel 2016 per LietoColle nella Collanina Apolide diretta da Mary B. Tolusso; il libro è finalista al Premio Maconi nel 2017. Nel 2019 viene pubblicata la seconda silloge poetica, “Gli angeli bianchi escono dai frigoriferi”, all’interno del libro a quattro mani con il poeta portoghese Manuel De Freitas presso EdB Edizioni nella collana Poesia di Ricerca diretta da Alberto Pellegatta. Successivamente escono alcune sue poesie sulle riviste Gradiva e Il Segnale e su blog letterari online. Ha partecipato come finalista al Cetonaverde Giovani e alle antologie “Planetaria (27 poeti del mondo nati dopo il 1985)” di Taut Editori, “Abitare la parola (poeti nati negli anni 90)” di Giuliano Ladolfi Editore a cura di Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello e “Pier Paolo Pasolini: 6 domande a giovani poeti” curata dai professori Angelo Fàvaro ed Eleonora Rimolo per Delta3 Edizioni.
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