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Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Cerchi l’ombra conforme»: recensione a "Meno di una pietra di calcare" di Enrico Barbieri

Pochi libri hanno il potere, al pari di quest’ultima raccolta di Enrico Barbieri Meno di una pietra di calcare, uscita nel 2021 per Delta 3 edizioni, di trovare un accordo quasi osmotico tra la propria interiorità, le proprie radici e il mondo; pochissimi hanno il coraggio di guardare in faccia con tanta pervicacia la profondità, di addentrarsi in quel magma che sta sotto di noi e ci alimenta, ma che, al primo cambio di vento, è destinato a travolgerci e renderci pietra sedimentata, fossile, coagulo di calcare eroso dall’acqua. Che l’autorefenzialità sia un malanno che affligge troppa poesia contemporanea è cosa già detta e ribadita in ogni dove, così come lo è la rinuncia programmatica a fare dell’io un cardine attraverso cui disserrare, o dissotterrare, per dirla secondo il gergo poetico di Barbieri, le cose o la ricerca di una scrittura trasparente, asettica che quelle cose ce le restituisca in provetta, senza contaminazioni. Barbieri non cade in nessuna di queste tentazioni: la sua è una poesia viscerale, sanguigna che scava a mani nude nella pietra, che svelle la terra per afferrare le radici sepolte, nella consapevolezza che quel reliquiario che è solo nostro e che abbonda di voci, di volti, di parole masticate incrostate dalla polvere, è ormai una cosa sola col tutto, si è saldata in un continuum senza più tempo, si è cementata in una crosta di pietra che raccoglie tutte insieme le nostre origini, i nostri mondi.

Barbieri muove da un paesaggio familiare, privato che ha un confine geografico riconoscibile, da una landa padana stretta tra le province della bassa Lombardia, innervata dal corso dei torrenti che trova la sua misura nella «lanca», nell’ansa del fiume in cui tentare la pesca o agguantare qualche rana, nell’acqua che si fa sabbia o pantano, che è vita e fogna al tempo stesso. Una regione che ha una corrispondenza esatta nella mappa e che pure si infittisce di toponimi minimi, di spazi millimetrici che solo il poeta conosce e quasi custodisce nella sua poesia, una regione che si cuce con un microcosmo fitto di affetti e di fratture che si sono fatte solchi nella pietra e che sopravvivono in noi come cicatrici indelebili: quel nonno rude, ruvido come quella campagna terrosa, quella nonna con il suo dialetto croato, venuto da lontano, che sgrana come un rosario nella bocca. E l’acqua stagnante, mefitica che marcisce nelle gore o che secca nelle anse dei suoi torrenti rivive nella donna gettata nel fiume dall’amante in quella canzone fatta di consonanti dure e stridenti, di cui sopravvive solo il suono tagliente.

Quel croato spigoloso, che è quasi una lingua ancestrale e magica, si impasta con le poche parole in dialetto, con i nomi dei luoghi, con i tecnicismi, con la lingua morta della pietra, con l’ammonite che ci racconta di come tutto sia destinato a sedimentare e a scomparire nel ventre della terra, così come i morti, i vecchi «avvolti da concrezioni di granito», murati nell’immobilità della foto si impastano con il bambino che tengono sulle ginocchia, diventano una cosa sola. Amnio, o amnios, e ammonite; liquido amniotico e vita, da una parte, e il farsi fossili dall’altra, il ricongiungersi con il manto della terra, con la crosta, si compenetrano e si annientano l’uno nell’altro, «nel grembo compatto /di queste rocce d’arenaria» o «nel lume amniotico» e lì si mescolano le storie nostre, che sono quelle di tutti: la fabbrica in Germania dove trovare un’occupazione, i sogni di ballerina della madre, l’epos di una società povera, derelitta, che gioca la «Pepatencia», che fa scongiuri e inventa formule per esorcizzare il tempo, la morte, l’inferno.

Un libro che, per una volta, non offre antidoti o salvezze, che rifugge ogni funzione consolatoria e assolve la parola da qualsiasi potere vagamente taumaturgico, che non racconta la ricerca di una collocazione o il nostro essere al mondo, quanto l’essere estranei dal mondo, dalle cose, tragicamente esclusi fin da principio, che racconta quanto le radici possano soffocarci e la terra non ci accolga, ma ci ricopra e ci annienti nel suo sedimentarsi senza requie.


Enrico Barbieri ha frequentato la Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi e ha lavorato per vent’anni in teatro. Ha vissuto a Londra, Roma e Milano.


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