Alma & Volponi (III Appuntamento)
Aggiornamento: 3 giu 2021
«La nemica figura che mi resta»: la svolta de Le porte dell’Appennino
C’è spesso nella storia di ogni poeta un punto di svolta, di non ritorno, un anno zero. D’altronde la poesia è espressione dell’animo umano: si trasforma, matura, aumenta o diminuisce la sua intensità, si scopre o si nasconde, deraglia e prende direzioni inaspettate e lo fa procedendo fedele di fianco agli uomini e alle donne da cui si dipana. Nella poesia di Volponi questa svolta arriva all’altezza del 1960. In quell’anno esce difatti la raccolta feltrinelliana de Le porte de l’Appennino che si aggiudicherà il premio Viareggio. Con questa opera la poesia di Volponi raggiunge la maturità e cambia il suo registro. Non è un caso che solo due anni dopo Volponi iniziasse con Memoriale la sua carriera di narratore e romanziere così come non è secondario notare che dopo Le porte de l’Appenino la scrittura poetica di Volponi subisce un lungo arresto. Un’apnea che termina nel 1974 quando l’urbinate torna a pubblicare versi con Foglia mortale. Ancora una volta Volponi ci stupisce; perché se è vero, come dice Zinato, che in questa raccolta «il verso acquisisce la maturità e la fermezza necessarie a trasformare la mitologia biografica in figura di portata universale»[1] è altrettanto vero che Volponi interpreta questa maturità non in termini di superamento o miglioramento ma come la continuazione di una «accanita adolescenza». A proposito della raccolta scrive infatti al primo «maestro e amico» Pasolini:
Conto su questo libro per non sentirmi sepolto a Ivrea e per potere avere la forza di scrivere ancora, continuare questa accanita adolescenza, giacché la maturità negli altri sembra solo viltà, di continuare a guardare dentro di me e a stabilire da tutti i miei atti una morale che mi serva a guardare tutto il resto e gli altri, la più indifesa, appassionata e umile.[2]
Sebbene l’impianto poetico de Le porte de l’Appennino denoti una nitidezza e una forza diversa e certamente una solidità maggiore di quella che possedeva ne Il ramarro e ne L’antica moneta, Volponi continua anche in questa raccolta a perpetuare una poesia di “resistenza”, sentita come caparbia volontà di non tradire quella pulsione arcaica che lo aveva la prima volta portato alla poesia. Nota Muzzioli come il respiro poetico cresca proprio ne Le porte dell’Appennino quando il poeta approda al poemetto in maniera pressoché definitiva e la poesia inizia a caricarsi di un più spiccato andamento narrativo. L’abbandono del frammento lirico-paratattico in favore della più distesa misura del poemetto narrativo giunge a compimento grazie soprattutto al particolare solidazio con «Officina», e alla lettura della raccolta pasoliniana Le ceneri di Gramsci, edita nel 1957, che pone le basi per una vera svolta della poesia volponiana. Con Le porte de l’Appennino Volponi mette a fuoco tre direzioni di senso e di poetica che pure già avevano mosso i primi e i primissimi versi ma che ora assumono una fermezza costruttiva e una profondità di analisi al contempo inedite e rinnovate:
il percorso «personale» nella storia familiare e nei ricordi d’infanzia; il percorso «spaziale» nel proprio territorio, con fiumi, colline, valli, paesi e al centro l’ «aguzzo diamante / della città», Urbino (per Volponi luogo archetipo e utopico); il percorso «temporale» nel ciclo delle stagioni, dei mesi e dei lavori agricoli.[3]
Per ciò che riguarda il percorso personale, «il ritorno del rimosso infantile viene ora sfidato e fissato»[4] con una maggiore consapevolezza: «la scena privata diventa dicibile e narrabile».[5] Emblematico a questo proposito un testo come Le catene d’oro nel quale il vissuto personale diventa dicibile proprio perché a l’epica esistenziale si unisce una scansione ciclica del tempo/non tempo e una collocazione cosmica, che finiscono per oggettivizzarla. Alcuni versi di questo componimento risultano illuminanti:
Ad essi [i calendari] corrisponde
l’unica mia certezza:
«6 febbraio, S’Amando
(ricorretto S’Armando)
nella curva della notte per il cielo
e di un vento di gran fortezza,
ore tre e quarantacinque minuti
è nato Paolo di Arturo e Teresa,
sano e libero, naso schiacciato.
Per il suo gran pianto
furono donati
dieci grammi d’oro
e un corallo con tre corni.
La mattina gran passaggio
di tordi marinacci».
Quanti altri giorni,
tordi smemorati e ingordi
sono passati?
«Quanti altri giorni, tordi e ingordi sono passati», dal 6 febbraio 1924, giorno della sua nascita, quanti dalla sua errabonda adolescenza nella terra marchigiana, quanti dalla prima fuga da quella «nemica figura di Urbino», Volponi lo sa bene. E non a caso Urbino e i suoi Appennini, la sua gente, la sua provincialità e i suoi personaggi, tornano sempre nell’opera volponiana, dalle poesie ai romanzi, dalle interviste agli interventi parlamentari, come quel quid da cui non si può sfuggire, anche se si ha la volontà di farlo. Ad Urbino luogo/non-luogo Volponi dedica uno dei poemetti più intensi e famosi dell’intera raccolta, e forse del suo intero corpus poetico, Le mura di Urbino, nel quale Zinato riconosce lo sfaldarsi della mitologia viscerale e il primigenio impianto di una «irrisolta dialettica tra il restare e il partire, fra paesaggio appenninico e grande città industriale».[6]
La nemica figura che mi resta,
l’immagine di Urbino
che io non posso fuggire,
la sua crudele festa,
quieta tra le mie ire.
Questo dovrei lasciare
se io avessi l’ardire
di lasciare le mie care
piaghe guarire.
Lasciare questo vento collinare
che piega il grano e l’oliva,
che porta sbuffi di mare
tra l’arenaria viva.
Lasciare questa luna tardiva
sul diamante degli edifici,
questa bianca saliva
su tutte le terrazze,
dove amici e ragazze
stendono le soffici tele
del loro amore infedele.
[….]
Allora i giardini pensili
piegano l’ombra ostile dei pini
verso quel punto dell’orizzonte,
nuovo ogni sera,
dove io non giungerò mai
libero dai miei cattivi pensieri,
dalla sorte nemica
che il mio amore castiga.
Quella Urbino dove Volponi è cresciuto «fino alla gioventù prima che il mondo cambiasse del tutto, si rivoltasse con la guerra e con le infinite trasformazioni da essa portate e indotte»,[7] è insieme madre e matrigna, colei che libera e colei che imprigiona; ora «spettro, ora oasi, ora memoria d’un lungo malessere e ora memoria grata».[8]
Le porte de l’Appennino sono la presa di coscienza, la sublimazione, potremmo dire, di ciò che ribolliva di dentro, nell’animo del poeta. È il tentativo di storicizzare un passato a volte molto doloroso «nell’ambito della più vasta vicenda collettiva».[9] E così accade difatti in La paura, dove l’inquietudine provocata dal viaggio sulla «funivia per il santuario di S. Luca / tutta di ferro e cruda» si esorcizza nel finale con il richiamo alla Liberazione degli eserciti alleati dell’Appennino:
fummo espugnati cuore per cuore,
fummo resi lieti,
nei balli militari, nelle sbornie,
nelle vicende delle ladrerie.
Un esercito innocente
sciolse senza parlare
le sue bandiere d’affetto
sul geloso silenzio familiare.
Amò le nostre donne, le sorelle:
mostrò a noi stessi il verso naturale,
il lembo puro della loro veste.
[1] E. ZINATO, Introduzione a P. VOLPONI, Poesie 1946-1994, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2001, p. XI. [2] Lettera manoscritta autografa di Volponi a Pier Paolo Pasolini datata «Sabato, 28 maggio 1960» ora in P. VOLPONI, Scrivo a te come guardandomi allo specchio, a cura di D. Fioretti, Edizioni Polistampa, Firenze 2009, p. 122. Questa lettera fa parte di un importante scambio epistolare che coinvolge i due scrittori e intellettuali e che copre l’arco temporale che va dal 1956 al 1975. [3] F. MUZZIOLI, Poesia allegorica e antagonista di Paolo Volponi, «Cuadernos de Filologia Italiana», n. 4, Servicio de Publicaciones UCM, Madrid 1997, p. 188. [4] E. ZINATO, Introduzione a P. VOLPONI, Poesie 1946-1994, cit., p. XVII [5] Ibidem. [6] Ibidem. [7] P. VOLPONI, Cantonate di Urbino, Besa, Lecce 2014, p. 35. [8] E. BALDISE, Invito alla lettura di Volponi, Mursia, Milano 1982, p. 11. [9] E. ZINATO, Introduzione a P. VOLPONI, Poesie 1946-1994, cit., p. XVIII.
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