Alma & Turoldo (I Appuntamento)
Il caso Turoldo: versi tra poesia e preghiera
Quando si parla di un autore come David Maria Turoldo risulta difficile scindere il poeta e l’uomo e quindi anche il rapporto tra la poesia e la vita stessa, in questo caso quella di un religioso tra le personalità più inquiete della chiesa cattolica del secondo Novecento, si lega in maniera indissolubile, tanto che un discorso di poetica implica anche un discorso sull’esistenza dell’uomo Turoldo. In questi termini si deve intendere il “caso Turoldo”: un personaggio magmatico, sicuramente singolare nel panorama poetico della poesia italiana del secondo Novecento.
Innanzitutto, perché parlare delle raccolte di Turoldo significa anche collocare in una tradizione poetica quasi esclusivamente lirica come quella italiana, una poesia essenzialmente profetica[1].
In secondo luogo, perché le ragioni di questa unicità si devono rintracciare nella figura inusuale di poeta che Turoldo rappresenta. Come intelligentemente notava Giorgio Luzzi[2], Turoldo si pone al di là della dissoluzione stessa del linguaggio poetico dei suoi contemporanei, rifondando un’idea di poesia forte, capace di essere strumento di intervento nel mondo.
Ed è in questo senso che si deve leggere il primato dato all’esigenza comunicativa, contro qualsiasi questione meramente estetica, in una confusione a volte del predicatore con il poeta, e del poeta con il predicatore, mai però con un’intenzione apologetica o di strumentale proselitismo, ma sempre volta all’incontro-scontro con le barriere del Divino e del Nulla.
La tensione profetica anima non solo le opere poetiche ma anche il vasto e nutrito corpus di prose, interventi sui quotidiani, saggi che fanno di Turoldo un “grafomane”, che raramente conoscerà momenti di contemplazione e di silenzio.
Un intellettuale scomodo e controcorrente alla maniera di un altro friulano celebre, quel Pier Paolo Pasolini alla cui madre Turoldo scriverà una toccante lettera in occasione della morte del figlio. Tuttavia se, come scrive Gualtiero De Santi, il poeta di Casarsa «opera con l’estetico sulla contraddizione, padre David si affida al conflitto: con Dio; con il mondo; con l’indistinto delle forme[3]». Il conflitto con l’indecifrabilità del presente e il valore profetico attribuito alla parola poetica emerge in un breve commento introduttivo dello stesso Turoldo contenuto nella raccolta Il sesto angelo, edita nel 1976, e inequivocabilmente intitolato Poesia e profezia – Ballata della disperazione[4]:
POESIA E PROFEZIA
[…] il poeta è colui che vede con gli occhi del fulmine, nell’attimo sconvolgente della folgore. Allora si scoprono le nervature del mondo; e tutto quello che normalmente appare non c’è più. Allora appunto siamo di fronte alla realtà più misteriosa. Solo che a cantarla sembra assurdo. La lucidità poetica non è del mondo logico […].
Questo breve testo sembra rimandare alla riflessione heideggeriana sul mezzo poetico, dove la poesia è da intendere come una «messa in opera della verità», un’apertura ad un orizzonte nel quale siamo gettati; un orizzonte prettamente storico dove la poesia, configurandosi come dubbio e «disagio del razionale», sa quanto nessuno riesce a dire.
È questo il nocciolo del caso Turoldo. Una fusione del poeta e del liturgista tramite il “canto”, inteso come interrogazione continua dell’Essere, dove la parola viene trasformata in strumento di verità e di denuncia poiché, come sottolinea Gadamer, «si fa esperienza di verità quando si fa vera esperienza[5]». Anche la poetica di un autore quindi, intesa come viaggio che ci trasforma e cambia (di Erfharung parla Gadamer) contiene dunque frammenti di verità.
Alla luce di quanto detto, non si potrà dunque considerare un caso se il nome vocazionale scelto da Giuseppe Turoldo, questo il nome di battesimo, sia proprio quello del profeta-poeta per eccellenza, David, il mitico re d’Israele accreditato dalla tradizione come autore di molti tra i Salmi.
Proprio il Salterio, dove la preghiera dell’individuo diventa Parola di Dio (Bonhoffer), costituisce il principale punto di riferimento con cui Turoldo si confronta per esprimere un’idea funzionale di poesia, intesa come luogo più alto per esprimere un’esperienza di fede “totale” che includa lancinanti dubbi e dolcissimi abbandoni.
[1] Cfr., Silvio Ramat, Testimonianza e poesia - atti del convegno di studio su David Maria Turoldo, Del Noce edizioni, 1993, Camposampiero (PD). [2] Cfr., Introduzione in Nel lucido buio – ultimi versi e prose liriche, a cura di G. Luzzi, Rizzoli, 1992, Milano [3] Gualtiero De Santi, Apocalisse e destino in Turoldo e Pasolini, in Testimonianza e poesia, cit., p.52. [4] D. M. Turoldo, O sensi miei…- poesie 1948-1988, cit., p.440-443. [5]hans george gadamer, Verità e metodo, in M. Campedelli, La ferita e il canto – per una poetica della liturgia, cit., p.37.
Grazie, Giuseppe, per condividere. È proprio così... L’esperienza della Verità è al cuore dell’esercizio poetico. Ne sa qualcosa D. M. Turuldo.