Alma & Sanguineti (I Appuntamento)
«Arte da museo»: Sanguineti e l’avanguardia come questione irrisolta
«Una cosa si sa. Ci fu il tempo delle generazioni di Vulcano. [...] Ci furono i momenti storici in cui fu possibile essere vulcanici. [...] C’era qualcosa da fare e si poteva fare subito, con estrema chiarezza, anche da soli» [1]. All’indomani del convegno musical-letterario di Palermo 1963, storica kermesse in cui prese forma il primo nucleo del Gruppo 63, Umberto Eco – sue le parole appena citate – non poteva che prendere atto di un mutamento radicale dei paradigmi storici dell’avanguardia. Se da un lato, infatti, le «generazioni di Vulcano» di Futuristi, Dadaisti e Surrealisti, ossia delle avanguardie cosiddette “storiche”, avevano avuto il merito di spezzare la continuità della tradizione con gesti eclatanti e a volte violenti, le neoavanguardie, che proprio nei primi anni ’60 stavano affacciandosi sulla scena, apparivano, al contrario, piuttosto inquiete, equipaggiatissime sul fronte critico-teorico ma in apparenza docili nei confronti delle istituzioni. Fu così che Eco coniò la formula di «generazione di Nettuno», attribuendo ai membri del Gruppo 63 una fisionomia quasi notturna, lunare: «Lo spirito nettunico [...] lavora così: lento e sotterraneo, emerge solo dopo lunghi tratti» [2], preferendo – concludeva sapidamente il futuro semiologo – «alla rivolta la filologia» [3].
Non si può parlare di Edoardo Sanguineti, e in particolare della prima fase della sua produzione, senza tenere conto di questo quadro generale. Poeta dal finissimo senso critico e autocritico, Sanguineti è stato a lungo considerato il volto più importante della neoavanguardia: per ragioni cronologiche, essendo la sua opera d’esordio Laborintus (1956) [4] il primo vero tentativo di riaprire i conti con l’eredità avanguardista nel secondo Novecento; e poi perché, complice una formazione accademica strutturatissima, orientata alla filologia dantesca [5] e arricchita da un senso profondo della politicità dell’atto letterario, si era guadagnato, fin dagli anni ’50, la reputazione di uno dei membri più autorevoli e “istituzionali” di quel nuovo movimento ancora in fieri.
Ora, la riflessione sull’avanguardia che Sanguineti condusse lungo gli anni ’60 sembra muoversi parallelamente a quanto intuito da Eco. Nel suo capolavoro saggistico Ideologia e linguaggio (tre edizioni: 1965; 1978; 2001) [6], il poeta di Laborintus offrì una disamina acutissima degli ambigui rapporti tra avanguardia e capitalismo, ma proprio a partire da quei rapporti tentò di delineare una strada che fosse ancora percorribile. Sosteneva, infatti, Sanguineti, che le avanguardie storiche espressero non tanto, o non solo, una novità di tipo estetico, ma «una verità generale di carattere sociale» [7], e che tale verità, in fin dei conti, non era altro che il nesso indissolubile di arte e mercato. Le avanguardie, cioè, in virtù di un atteggiamento di “cinismo” propriamente mercantile, avrebbero provato a «immette[re] nella circolazione del consumo artistico una merce capace di vincere [...] la concorrenza indebolita e stagnante» [8]. Sulla scorta di analoghe riflessioni di Walter Benjamin, Sanguineti arrivò a concludere che non era del tutto vero, come si usava dire allora in senso spregiativo, che le avanguardie storiche fossero diretta proiezione della classe borghese; esse erano, semmai – e il gioco concorrenziale con le “retroguardie” lo confermerebbe – proiezione scoperta di un particolare meccanismo economico, per cui l’opera d’arte vale né più né meno che qualunque altra merce.
Ponendo l’accento sulla componente socio-economica implicita nell’arte avanguardista, Sanguineti invitava a considerare il momento “vulcanico” come una rivelazione: non esiste arte che, stando le attuali condizioni economiche, possa porsi al di fuori del mercato, ma nemmeno al di fuori del museo, luogo di sublimazione del valore economico in valore culturale, cui nemmeno i più incendiari sono scampati [9]. Di conseguenza – ecco la convergenza con Eco – una neoavanguardia propriamente equipaggiata avrebbe dovuto evitare ogni epigonismo ingenuo, edificandosi semmai su quel paradosso arte-merce portato alla luce, cinicamente e senza infingimenti, proprio dalle vecchie avanguardie.
Se ci siamo dilungati su questi aspetti introduttivi è per una buona ragione. Libro alla mano, il lettore che volesse cimentarsi nell’attraverso di Laborintus vi troverebbe ben poco del linguaggio roboante e distruttivo di un’opera futurista, ma anche di quello automatico-onirico di un’opera surrealista. Al contrario, la sua attenzione sarebbe attratta soprattutto dalla presenza di elementi strutturali forti, come una vera e propria “trama” che si snoda pur tra complicazioni logiche e sospensioni delle identità caratteriali. Ma soprattutto, si troverebbe di fronte a un’opera di rigoroso criterio filologico, innervata di citazioni da altre opere e altre lingue, come il greco antico o il tedesco, che sull’esempio della più alta tradizione modernista (Joyce, Pound, Eliot) punti a trovare un principio d’ordine nel cuore del caos, una forma nell’informe.
E l’avanguardia? Con una battuta parafrasata da Paul Cézanne, Sanguineti spiegò l’operazione “laborintica” come un tentativo di «fare dell’avanguardia un’arte da museo»; ossia, di fare avanguardia per chiudere i conti con l’avanguardia stessa, realizzando, una volta per tutte, e coerentemente con le riflessioni di Ideologia e linguaggio, le premesse di superamento e museificazione da sempre implicite in ogni eversione avanguardista. Laborintus nasceva, insomma, con l’ambizione di essere l’ultima opera d’avanguardia possibile, oltre la quale l’avanguardia stessa avrebbe dovuto ammettere il suo esaurimento. Di questo, però, parleremo nella prossima puntata.
Per ora, limitiamoci a un piccolo antipasto: un’ode alla luna, in onore allo spirito notturno e «nettunico» del Gruppo 63; un’ode percorsa da un vivace immaginario surrealista, ma esposto al lettore – eccola, la museificazione! – come sotto formalina, catasta di oggetti ormai irrelati, fuori tempo e quasi ridicoli nei loro accostamenti azzardatissimi.
8.
ritorna mia luna in alternative di pienezza e di esiguità
mia luna al bivio e lingua di luna
cronometro sepolto e Sinus Roris e salmodia litania ombra
ferro di cavallo e margherita e mammella malata e nausea
(vedo i miei pesci morire sopra gli scogli delle tue ciglia)
e disavventura e ostacolo passo doppio epidemia chorus e mese di aprile
apposizione ventilata risucchio di inibizione e coda e strumento
mostra di tutto o anche insetto o accostamento di giallo e di nero
dunque foglia in campo
tu pipistrello in pesce luna tu macchia in augmento lunae
(dunque in campo giallo e nero) pennello del sogno talvolta luogo comune
vor der Mondbrücke vor den Mondbrüchen
in un orizzonte isterico di paglia maiale impagliato con ali di farfalla
crittografia maschera polvere da sparo fegato indemoniato nulla [10]
[1] U. Eco, La generazione di Nettuno, in AA. VV., Gruppo 63. L’antologia. Critica e teoria, a cura di A. Giuliani, N. Balestrini, R. Barilli, A. Guglielmi, Milano, Bompiani, 2013, p. 14.
[2] Ivi, p. 15.
[3] Ivi, p. 13.
[4] E. Sanguineti, Laborintus. Laszo Varga: XXVII poesie, 1951-1954, Varese, Editrice Magenta, 1956; ora in Id., Segnalibro. Poesie 1951-1981, Milano, Feltrinelli, 1982.
[5] Il 30 ottobre 1956, Sanguineti si laureò all’Università di Torino con Giovanni Getto. La tesi, un monumentale attraversamento delle Malebolge dantesche, oggi ricordata come una delle più importanti analisi di impianto anti-crociano dell’Inferno, uscì in volume come Interpretazione di Malebolge, Firenze, Olschki, 1961.
[6] E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 2001.
[7] Id., Avanguardia, società e impegno (1966), ivi, p. 62.
[8] Id., Sopra l’avanguardia (1963), ivi, p. 55.
[9] Così Sanguineti spiega il nesso mercato-museo: «il prodotto artistico sta [nel museo] come quella cosa che non c’è somma che la possa pagare», ivi, p. 58.
[10] Id., Laborintus, cit., p. 23.
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