Alma & Rosselli (II Appuntamento)
Amelia Rosselli: un Io polifonico declinato nella Storia
«Irrimediabile era il male del mondo, e con ciò il mio male», scrive Amelia Rosselli nelle prose di Diario ottuso, frase che riassume perfettamente il senso di un’opera dove mai guerra privata e guerra pubblica possono scindersi. La poesia di Rosselli, infatti, nonostante la sua unicità e lontananza dalle tendenze contemporanee, si fa testimone del Dopoguerra e dei sentimenti di chi è stato trafitto in prima persona dalla Storia. L’infanzia brutalmente interrotta dall’uccisione del padre in seguito a un attacco terroristico dietro indicazione del regime mussoliniano e l’adolescenza spezzata dalla morte della madre insinuano fin da subito l’assillo della violenza, dei carnefici, del coro luttuoso delle vittime che costituiranno l’apparato di voci polifoniche ora in dialogo ora in sovrapposizione con il soggetto. Mai l’Io di Rosselli resterà una voce unicamente autobiografica, ma sarà un soffio capace di tenere insieme un dolore universale. Il risultato è una poesia perturbante dove tutto – lingua, metro, temi – si subordina e si sfalda, si sdoppia e si stratifica su diversi piani interpretativi, perché ciò che deve essere comunicato è un inconscio fragile e frastagliato, fanciullesco se pure violentato dall’incombenza della morte. Esattamente come l’Io autobiografico che, assediato dalla Storia, era stato costretto a continue perdite, spaesamenti e spostamenti, anche l’intera struttura poetica dovrà portare in sé il trauma di un canto spezzato, di un doppio mostruoso che si svela ripetutamente. In tal senso, un esempio che ben mette in mostra questo processo compositivo della poesia di Rosselli è costituito dal poemetto La libellula, limato per anni e uscito in versione definitiva sulla rivista «Nuovi Argomenti» nel 1966. Al di là della specifica esegesi del testo, che richiederebbe un lunghissimo spazio, si possono mettere in evidenza alcuni tratti che rispondono a quel preciso intento polifonico di declinazione del sé nella Storia. In oltre 660 versi lo spazio della soggettività si allarga per proiettarsi in un discorso altro che diventa inconscio collettivo di un popolo composto da vittime e “folle spaventate” capaci di lottare e resistere. Tutto questo si colloca, quasi difficile a credere se non lo si legge, in una cornice fiabesca che è una fuga nella fantasia rosselliana a metà tra flusso di coscienza e racconto orale. La leggerezza apparente inizia ad essere turbata dalla lingua e dal ritmo che cambia, il canto fiabesco si spezza, le voci si moltiplicano a fare coro, e arriva la poesia che svela il lato oscuro, l’altra faccia della medaglia. Lo stesso titolo, La libellula, tiene già in sé il significato allegorico del doppio mostruoso: la libellula rimanda immediatamente a una serie di immagini legate al volo, all’aria e alle atmosfere fiabesche ma, lavorando sul significato inglese del termine, “dragon-fly”, ci si rende conto che è già insita nello stesso corpo la figura del drago, creatura del fuoco, della violenza e della paura. Quando il drago emerge divora la sua metà, la libellula, e il canto allora diventa una litania. Questo processo, spiegato a partire dal poemetto, è in realtà uno stilema rosselliano che si ripresenta anche nelle principali raccolte poetiche, tra cui Serie ospedaliera, in cui La libellula è inserita. L’irrimediabilità del male della Storia, che si fa anche male privato, non può scindersi dalla lingua e dalla poesia stessa, che si deforma e si sforma senza paura di perdere un’estetica rassicurante e immediata. Lo stesso Io di Rosselli si perde in questo gioco di intrecci e di doppi polifonici, ed è un modo di darsi e di sacrificarsi a qualcosa di più grande, a una verità che l’uno, da solo, non può reggere.
Da Diario ottuso
VI
[…]
Ma nessuno vero volto svelò il mondo che aveva cangiato colore per lei che non era più quella di prima, ma il suo amico fratello morto già da prima. Costruì corto-circuiti, sostituì al superficiale e difficile pieno della sua vita una granata esplosiva – pur di rintracciare l’unica verità: cioè la scienza della semplice giocondità. Giocò, come tutti, con la vita ma non più infantilmente: con graffi sui tavoli degli osti meravigliati del suo improvviso ritorno con faccia angolosa. Non volle sapere cosa fosse un rassegnarsi a condizioni inique.
Non volle sapere d’essere bersaglio di molti, e riso di tanti: non seppe intravedere nel silenzio di altri nascosti un suo furore troppo vero. O troppo bastardo? Non seppe ascoltare un cielo sprovvisto di cultura, invisibile dietro ai tetti: nessuno seppe portarla a guardare un cielo sprovvisto di ire o di pensieri.
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