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Immagine del redattoreSara Vergari

Alma & Pavese (II Appuntamento)

Il mito delle Langhe in Lavorare stanca


La storia e l’incessante labor limae di Lavorare stanca ci aiutano a capire la meticolosità e la ricerca quasi ossessiva di Pavese non tanto per la perfezione in senso tecnico, quanto per far germogliare per la prima volta il seme della sua poetica. In questa raccolta, infatti, sono già presenti tutti i nuclei che riprenderà e elaborerà successivamente nella narrativa e nei Dialoghi con Leucò. Uscita per la prima volta nel 1936 per Solaria, subirà un processo di ampliamento (ad esempio le otto poesie aggiunte in seguito al confino a Brancaleone Calabro) e di risistemazione (lo testimoniano alcuni indici conservati tra le carte dell’Archivio presso il Centro Gozzano-Pavese) fino all’edizione Einaudi del 1943. La svolta poetica che segna il passaggio dalle poesie giovanili è rappresentata dalla scrittura di I mari del Sud del 1933. Pavese stesso definisce questo momento come un’evoluzione dalla poesia-sfogo alla poesia-racconto, così intesa per il verso lungo alla Whitman ma anche per l’andamento e la scoperta dell’”immagine”. Proprio quest’ultima ci interessa perché traghetta la narratività di Pavese dal naturalismo alla dimensione simbolica: l’immagine costituisce «una situazione suggestiva di nuclei, di sangue, di complesso, ritmici. E dico che ogni nucleo è un’immagine del racconto» (Il mestiere di vivere, 16 dicembre 1935). Questa non è dunque lo sfondo pittorico del nucleo poetico bensì il racconto stesso: le colline di Paesaggio I, la finestra di Mania di solitudine non sono elementi decorativi ma il punto esatto dove convergono tutti i “rapporti fantastici” tra soggetto e oggetto. In Lavorare stanca è il paesaggio collinare delle Langhe che, su tutto, viene investito di questo ruolo, divenendo l’immagine simbolica del passaggio dalla realtà geografica al mito ancestrale dell’infanzia. La zona delle Langhe, dove Pavese ha trascorso la propria infanzia prima di trasferirsi a Torino, rimarrà sempre il suo riferimento naturale, tanto che nel periodo del confino passato in Calabria avrà difficoltà a rapportarsi con il mare e a integrarlo nei propri lavori. Il simbolismo pavesiano di fronte alla natura, non ci si deve sbagliare, non è lo spleen baudelairiano ma si avvicina piuttosto alla percezione liminare dell’Infinito leopardiano, là dove le colline, così come la siepe, indicano la soglia «che da tanta parte il guardo esclude» e che, impedendo la vista, propiziano l’oltranza. Come scrive Bart Van den Bossche in Nulla è veramente accaduto. Strategie discorsive del mito nell’opera di Cesare Pavese, in questa descrizione del paesaggio collinare Pavese opera una «dilatazione spaziotemporale volta a proiettare in una prospettiva temporale ancestrale», dunque in una dimensione altra. In una confessione vergata a lapis su un taccuino dell’estate del 1926 (autografo conservato presso l’archivio del Centro Gozzano-Pavese) riporta:


Le prime idee e i primi sentimenti mi si manifestarono là. Tra quei bei vigneti verdi stesi nella terra bruna, disseccata al sole e sui declivi languidi di prati d’erba verde e vellutata. […] Di là il mondo cominciava a svelarmisi immenso e nei pomeriggi afosi tra i giochi talvolta già mi prendeva quell’aspirazione, che mi lanciava colla fantasia al di là di quelle colline lontane dietro un nome, una descrizione di paesi che scoprivo nelle prime letture.

Il paesaggio langarolo è insomma un oggetto poetico liminare che viene utilizzato simbolicamente da Pavese per accedere alla dimensione del mito dell’infanzia, che teorizzerà negli anni ’40 ma che è già presente in Lavorare stanca in forma embrionale. «Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra / con le linee sicure dei fianchi, lontane e vicine.» (Gente spaesata), «Le colline insensibili che riempiono il cielo / sono vive nell’alba, poi restano immobili / come fossero secoli» (Paesaggio V); già in questi versi si nota quella dilatazione spaziotemporale di cui parlava Van den Bossche, là dove le colline sembrano occupare uno spazio infinito, riempite da un soffio immortale come fossero divinità. E ancora, se leggiamo solo i primi versi da I mari del Sud, la passeggiata sui colli al crepuscolo, ora per eccellenza liminare, sembra propiziare la vista del cugino come una figura mitologica: «Camminiamo una sera sul fianco di un colle, / in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo / mio cugino è un gigante vestito di bianco, / che si muove pacato, abbronzato nel volto, / taciturno». Il cugino è un gigante vestito di bianco dal carattere taciturno, tornato dalla guerra, tornato da molto lontano, per richiamare racconti di un passato che appartiene allo stesso poeta. La figura è connotata poi da veri e propri epiteti che si ripetono nel testo: «Mio cugino è tornato, finita la guerra / gigantesco», «Mio cugino ha una faccia recisa», «Vestito di bianco, / con le mani sulla schiena e il volto abbronzato». D’altra parte, si insiste sull’uso del dimostrativo “quello” per indicare la lontananza dalle terre e dai ricordi rievocati: «Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro». Il cugino de I mari del Sud è solo uno dei personaggi connotati in prospettiva mitologica, cui si affiancano “l’uomo bianco” eremita di Paesaggio III, l’uomo solo di Lavorare stanca e altri ancora. La terra, la luna, il sangue, elementi primitivi popolano la poesia di Pavese insieme a uomini di campagna, legati alle feste popolari e ai rituali. È questo il paesaggio langarolo delineato in Lavorare stanca, in cui vive ancora la possibilità del recupero dell’infanzia attraverso il mito. Quello stesso paesaggio che, nell’ultimo romanzo La luna e i falò, risulterà ormai impossibile da rivivere.



Luna d’agosto


Al di là delle gialle colline c’è il mare,

al di là delle nubi. Ma giornate tremende

di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo

si frammettono prima del mare. Quassù c’è l’ulivo

con la pozza dell’acqua che non basta a specchiarsi,

e le stoppie, le stoppie, che non cessano mai.


E si leva la luna. Il marito è disteso

in un campo, col cranio spaccato dal sole

una sposa non può trascinare un cadavere

come un sacco -. Si leva la luna, che getta un po’ d’ombra

sotto i rami contorti. La donna nell’ombra

leva un ghigno atterrito al faccione di sangue

che coagula e inonda ogni piega dei colli.

Non si muove il cadavere disteso nei campi

né la donna nell’ ombra. Pure l’occhio di sangue

pare ammicchi a qualcuno e gli segni una strada.


Vengon brividi lunghi per le nude colline

di lontano, e la donna se li sente alle spalle,

come quando correvano il mare del grano.

Anche invadono i rami dell’ulivo sperduto

in quel mare di luna, e già l’ombra dell’albero

pare stia per contrarsi e inghiottire anche lei.


Si precipita fuori, nell’orrore lunare,

e la segue il fruscio della brezza sui sassi

e una sagoma tenue che le morde le piante,

e la doglia nel grembo. Rientra curva nell’ombra

e si butta sui sassi e si morde la bocca.

Sotto, scura la terra si bagna di sangue.


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